La mia partenza da Roma doveva poi prepararsi in una maniera specialmente festosa: tre notti prima la luna piena splendeva nel cielo purissimo, e l'incanto della grande città così illuminata era infinitamente penetrante. Le grandi masse di luce chiara sembrava provenissero da un giorno dolce e tacevano un grande contrasto con le ombre profondissime, talvolta rischiarate da qualche riflesso, e noi credevamo di essere in un altro mondo più grande e più semplice.
Dopo giornate faticose, noiosissime e penose, volli la notte godermi quello spettacolo con pochi amici ed una volta interamente solo. Dopo aver percorso per l'ultima volta tutto il Corso, salii sul Campidoglio, che s'erge solitario come un palazzo incantato. La statua di Marco Aurelio faceva ripensare al Commendatore del Don Giovanni e sembrava che volesse far comprendere allo spettatore che stava per intraprendere qualche cosa d'inusitato. Ciò non ostante io abbandonai la piazza e scesi i gradini dell'altro versante e davanti ai miei occhi interamente oscuro e gettando grandi ombre apparve l'arco di Settimio Severo; nella solitudine della via Sacra, i monumenti così noti, sembravano quella sera strani e spaventosi. Ma quando mi avvicinai al Colosseo e a traverso le grate potei gettare uno sguardo nell'interno, fui preso da una specie di tremito ed affrettai il ritorno.
Ogni oggetto faceva un'impressione speciale, ma sublime e comprensibile allo stesso tempo, ed in queste circostanze quella passeggiata fu una specie di magnifica " summa summarum " della mia vita a Roma.
Il dolore della partenza fu molto grande. Lasciare, senza speranza di mai più rivederla, questa capitale del mondo, della quale per tanto tempo ero stato cittadino, mi fece un'impressione che è impossibile esprimere. Nessuno può comprendere questo sentimento se non l'ha provato. Io ripetevo continuamente nella mente quei versi dell'elegia che Ovidio compose trovandosi nelle stesse condizioni in cui mi trovavo io.
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